Dalla prefazione:
«Moten e Harney vogliono indicare un altro luogo, un luogo selvaggio che non è semplicemente lo spazio residuale che delinea le zone reali e regolamentate dalla società civile; è piuttosto un luogo selvaggio che produce continuamente la sua stessa natura selvaggia e sregolata. La zona in cui entriamo attraverso a Moten e Harney è in corso ed esiste nel presente, e come dice Harney “una sorta di domanda era già in atto, soddisfatta nella chiamata stessa”. (..) Anche per Moten, sei sempre già nella cosa che chiami e che ti chiama. Inoltre la chiamata è sempre un richiamo al dis-ordine, e questo disordine, o questa condizione selvaggia, si manifesta in molti luoghi: nel jazz, nell’improvvisazione, nel rumore. (..) L’ascolto della cacofonia e del rumore ci dice che c’è una natura selvaggia oltre le strutture che abitiamo e che ci abitano. E quando siamo chiamati a quest’altro luogo, l’oltre selvaggio, “oltre l’oltre”, dobbiamo abbandonarci a un certo tipo di follia.»
«Per Fred Moten e Stefano Harney dobbiamo fare causa comune con quei desideri e (non)posizioni che sembrano folli o inimmaginabili: dobbiamo, in difesa di questo allineamento, rifiutare ciò che prima ci è stato rifiutato e in questo rifiuto rimodellare il desiderio, riorientare la speranza, immaginare di nuovo la possibilità, e farlo separatamente dalle fantasie annidate nei diritti e nella rispettabilità. Le nostre fantasie devono venire dalla “stiva”. (..) La stiva qui è la stiva della nave schiavista, ma è anche la presa che abbiamo della realtà e della fantasia, la comprensione che hanno di noi e la comprensione dell’altra a cui decidiamo di rinunciare, preferendovi il toccare, l’essere insieme, l’amare.»