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A distanza qualche mese sono arrivate in libreria due proposte editoriali autoprodotte di cucina: a fine ottobre L’integrale – Rivista di pane e cultura progettata e curata con rara abilità letteraria da Diletta Sereni, con illustrazioni e arti direction di Gianluca Cannizzo e finanziata dal panifico Davide Longoni di Milano e a fine dicembre Monoporzioni del laboratorio di cucina Cozinha Nomade di Bisceglie insieme alla piccola casa editrice indipendente ziczic di Polignano a Mare.
Da nord a sud la pandemia ha liberato tempo per vivere lo spazio della cucina e immaginare sperimentazioni editoriali legate agli aspetti più sociali e politici del cibo: un’altra traccia dello spirito culturale del 2020 che si aggiunge, per assonanze creative e “materiali”, all’interesse manifestato dall’editoria per il corpo, di cui abbiamo parlato qui e qui.
Appena sfogliato, raccontammo L’integrale così: «qualcuno lo trova in matematica, qualcun altro nella cucina. Altri lo sono, finalmente completi, che invidia!
Ora é anche in libreria, L’integrale. Rivista di pane e cultura: saggi, reportage, racconti, illustrazioni, fotografie e ricette per sentirci legati nel pane quotidiano, dalla preistoria al futuro, in tutte le direzioni geografiche, sociali, culturali ed emotive.
In questo nuovo tempo che ci allena alla disintegrità sociale, facciamo il pane e prepariamo la tavola. Qualcosa di nuovo lieviterà».
Rapidamente la rivista è diventata uno dei libri più venduti di tutto il 2020 e ora attendiamo con pazienza di scoprire che cosa di nuovo sta lievitando in questo anno che inizia ancora in solitudine.
E proprio per vincere l’isolamento è nato Monoporzioni.
Il ritmo è questo: una ricetta, un cuoco, un racconto.
Alla fine rimangono: un sapore (un incrocio di sapori), una vita nomade, uno sguardo sulla realtà che stiamo vivendo.
Un mix di ingredienti dove nulla e nessuno è fermo e solo, nemmeno di fronte al computer dove, nei mesi del primo lockdown, ha partecipato all”iniziativa Smart Co.Cooking di Cozinha Nomade: momenti di cucina collettiva in videoconferenza dalla propria casa seguendo le ricette di sedici cuochi per passione o per professione, sparsi tra Lisbona a Instabul passando per Bari. Cuochi “nomadi”, migrati lontano dai propri luoghi d’origine, sperimentatori di molti lavori senza mai allontanarsi dalla passione per il cibo.
Il libro testimonia questo esperimento sociale offrendo i segreti casalinghi di churros, ragù e açorda in formato monodose “per famiglie monoparentali e single con animale domestico” da moltiplicare in più porzioni per “coinquiline in erasmus, genitore e bambino, famiglie ricomposte, amici storici, coppie appena nate, famiglie plurietniche, bambini” e chiunque potremo incontrare intorno alla nostra tavola quando potremo aprire la porta di casa senza paura e restrizioni. “Monoporzioni” solo per coltivare insieme la biodiversità alimentare, umana e relazionale in libertà.
In uno dei testi più belli de L’integrale, Irene Soave scrive: «Avete tutti fatto il pane. (..) Quando vi ho chiesto perché impastavate tutti – nel giorni del confinamento farine e lieviti erano introvabili – ho ottenuto risposte come fiocchi di neve, come madri di lievito: non una uguale all’altra. (..) Ognuno ci ha messo dentro quello che sentiva. Chi si è voluto sentire “bravo” e ha usato farine biologiche creato colonie di lieviti, imparato cosa vuol dire “W”. Chi si è immaginato “una vita semplice”. Chi ha giocato a fare il pane con i figli. Chi ha trattato i suoi lieviti come esseri vivi di cui prendersi cura e ha sperato che gli somigliassero. Ognuno può leggere la sua vita secondo una smorfia di simboli: immagino le vostre e leggo, alla voce “pane”, creazione, cura, nostalgia, scontento. Un giorno di aprile, dopo un mese che non potevamo uscire, è venuta voglia anche a me di fare il pane. (..) Non lo so mica, se i miei panini erano commestibili. Li ho mangiati quasi tutti, perché buttare il pane è peccato; gli altri li ho regalati e nessuno dei miei cari mi ha detto “che buoni”. Nei mesi di confinamento li ho rifatti qualche volta senza ragione, e sempre con sollievo mi sono accorta che non erano migliorati. A giugno avevo i capelli più lunghi e ricci, due chili di troppo, niente più occhiaie. In ufficio non sono ancora tornata: per qualche mese, ancora, lavoreremo da casa. La mia smorfia ora comprende anche il pane. Per me significa libertà dal perfezionismo, dall’ambizione.».
Che sia pane, ragù, churros o açorda, cucinare ci ha aiutato a ritrovare una forma di la libertà, in formato monodose da moltiplicare.